Leggo sempre più spesso interventi a proposito dell’uso delle tecnologie a scuola e sui rischi che ne possono derivare. Devo dire che non mi stupisco: sapevo che saremmo arrivati qui, perchè l’introduzione delle tecnologie a scuola ha seguito lo stesso schema che già fu dell’inglese.
Una volta capito che l’inglese “serve per il lavoro”, per timore di arrivare ultimi, lo si è anticipato ovunque, addirittura alla materna e al nido. Ma questo approccio dimentica che anche un secolo e mezzo fa, chi si trovava a frequentare ambienti internazionali, imparava bene le lingue anche senza averle incontrate nell’infanzia, anche se aveva frequentato le vecchie scuole di tempo breve con la maestra unica: perché possedeva una base solida nella propria lingua madre. Servono delle fondamenta linguistiche, non essere poliglotti in culla.
Con l’informatica abbiamo vissuto la stessa storia: siccome la tecnologia sta arrivando nel lavoro, allora pare che occorra introdurla in ogni grado di istruzione, senza chiedersi se coerente con gli obiettivi di istruzione ed educazione di tutte le fasce d’età. Con l’aggravante di due gravi equivoci se non proprio errori.
Il primo è la sovrapposizione tra informatica e uso da utente. Un conto è il pensiero computazionale, la sua logica, la struttura del dato, la capacità di scomporre un problema e progettare una soluzione. Un altro conto è saper usare strumenti di produttività come Canva o Word. Sono competenze completamente diverse. Oggi molti ragazzi maneggiano con abilità smartphone e piattaforme, eppure non possiedono gli strumenti concettuali per capire come quelle “meraviglie” funzionano. Conoscono i comandi, non l’alfabeto che li rende possibili. È la differenza tra saper guidare un’auto e saperne leggere la meccanica minima: senza quella grammatica del funzionamento, la dipendenza dagli strumenti cresce e l’autonomia intellettuale si restringe.
Il secondo è la rincorsa. La scuola tenta di inseguire un fenomeno che, fuori, corre più veloce. Capita che insegnanti preparati in altri ambiti, ma non aggiornati sul digitale, si trovino a spiegare strumenti a ragazzi che, almeno sul piano dell’uso, ne sanno di più. Il risultato è un insegnamento spesso difensivo, a volte cosmetico: qualche lezione “tecnologica” qua e là, senza un filo curricolare chiaro e senza un investimento serio sulla formazione dei docenti. Il mondo intorno cambia di continuo; la scuola, se insegue, si condanna alla coda del treno.
C’è poi una questione culturale che chiede di essere nominata. Adeguarsi in maniera così acritica a ciò che il mondo propone, fa perdere autorevolezza all’istituzione scolastica e attenta alla base uno dei principi che dovrebbero guidare il metodo didattico. Se una competenza come l’uso del pc assurge a fondamento, creiamo - senza nessuna base di validità psicopedagogica - nuove differenze tra chi ha accesso a casa a certi strumenti informatici e chi non ce l’ha. I genitori che non possono offrire certe cose diventano gli indigenti del nuovo secolo e quelli che preferiscono ritardare l’accesso a pc e cellulare sono quelli “chiusi” e “protettivi”. A dispetto delle affermazioni di centralità della persona e personalizzazione, si applica poi uno standard implicito che definisce normale ciò che è maggioritario. Chi se ne discosta, anche per motivi educativi ragionevoli, diventa subito un caso da correggere.
La scuola per prima si imbarazza nelle differenze invece di farne tesoro.
La scuola di oggi ha bisogno di rimettere in ordine le priorità: una solida competenza nella lingua madre aiuta ad apprendere lingue straniere e linguaggi formali. Chi sa leggere a fondo, scrivere con chiarezza e argomentare con rigore impara più facilmente anche Python. Non è un ritorno al passato: è un investimento sulle fondamenta cognitive.
In secondo luogo, distinguere i piani e costruire un curricolo esplicito. Da una parte le competenze da utente: sicurezza digitale, cittadinanza online, produttività, ricerca e valutazione delle fonti. Dall’altra l’informatica come disciplina: logica, algoritmi, architetture, reti, dati e un’esperienza reale di programmazione. Le due dimensioni si possono intrecciare, ma non sostituire. Un corso su Canva non può fare le veci di un percorso sul pensiero computazionale, così come un laboratorio di coding non assolve alla necessità di educare a un uso critico delle piattaforme.
Non bastano micro-aggiornamenti sugli strumenti di moda. Occorre una alfabetizzazione informatica di base per tutti, una didattica del problem solving, la capacità di valutare processi oltre ai prodotti finali. E serve anche una postura professionale onesta: quando uno studente sa qualcosa più di me sull’uso, lo riconosco e lo trasformo in risorsa, senza rinunciare alla guida. Il ruolo dell’insegnante non è “sapere tutto”, ma orientare il sapere in un percorso sensato.
Infine, occorre discernere tempi e modi dell’esposizione agli schermi. Non è una crociata contro la tecnologia. È una questione di sviluppo. Manualità, relazioni e lettura sono nutrienti indispensabili, soprattutto nelle età più basse.
Il digitale può essere utile quando non sostituisce, ma integra, e quando è inserito in compiti con senso. Così ci si salva dall’abuso.
Infine, prendere sul serio la personalizzazione, che rischia di restare uno slogan da PTOF. la personalizzazione è un criterio operativo che deve orientare, scelte, tempi, valutazioni, l’approccio stesso dei docenti. La ragazza senza smartphone non è un reperto museale: è una persona con una storia familiare e un progetto educativo. La scuola non deve “normarla” in fretta, ma accompagnarla con equità, offrendo alternative e garantendo accesso ai saperi senza imporre identiche traiettorie a tutti.
Insomma: stiamo insegnando la guida o solo il volante?
Se la scuola cura le basi, distingue i piani e sceglie metodologie vive, i ragazzi non resteranno utenti dipendenti dai tasti, ma diventeranno soggetti capaci di capire, progettare, scegliere. È ciò che chiediamo all’educazione: non una collezione di abilità effimere, ma la costruzione di una libertà competente, capace di attraversare anche la rivoluzione digitale senza esserne trasformata.

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