30 giugno 2025

La scuola e i tempi dei bambini. La scolarizzazione è un fine o un mezzo?

 


 È tempo di pagelle, e le famiglie stanno conoscendo i figli attraverso gli occhi dei loro insegnanti: valutazioni numeriche e giudizi descrittivi dovrebbero pennellare sinteticamente personalità, risultati e  approccio all’apprendimento dei ragazzi che studiano.

È questo, a mio avviso, l’occasione in cui appare più stridente il contrasto tra scuola e vita. Il momento in cui si certifica come la scolarizzazione – intesa come il processo di allenamento ad un insieme di pratiche standardizzate, verifiche periodiche e tabelle orarie rigide – finisce per sovrapporsi all’obiettivo reale dell’educazione: favorire un apprendimento autentico e il benessere emotivo dell’infanzia. 

I bambini imparano per natura attraverso il gioco, la curiosità e la sperimentazione autonoma. Numerose ricerche in campo neuroscientifico confermano che l’apprendimento significativo avviene quando il bambino può manipolare gli oggetti, porsi domande e ricevere feedback immediati dal contesto. Tuttavia, il ritmo biologico ed emotivo dei più piccoli non coincide sempre con gli orari scanditi dalle campanelle o con la sequenza serrata delle discipline scolastiche.

Le finestre di attenzione dei bambini della scuola primaria oscillano fra i 10 e i 20 minuti. Quando le lezioni si prolungano oltre senza pause attive, la capacità di concentrazione crolla e il carico cognitivo supera le soglie di tolleranza, generando ansia e frustrazione. Oltre a queste considerazioni generali, occorre ricordare che ciascun bambino ha un proprio ritmo di maturazione. Anticipare tappe (lettura, scrittura, calcolo) o ritardare il riconoscimento dei progressi personali - per adeguarsi a griglie che uniformano i percorsi - mina l’autostima e alimenta etichette di “lentezza” o “inadeguatezza”.

La scolarizzazione dovrebbe essere il modo pratico attraverso cui garantire a tutti il diritto di apprendere. Tuttavia, quando i mezzi di verifica (programmi ministeriali, prove standardizzate, ranking) diventano il centro dell’attenzione, essi finiscono per assumere importanza in sé. Così, la scuola pubblica aperta a tutti, che dovrebbe per definizione “vestire” ciascuno con l’abito (metodo, ritmo, cura) su misura della personalizzazione, diventa il luogo che giudica la crescita invece di accompagnarla.

Quando diventa motivo di valutazione negativa il bambino che “necessita di tempi più lunghi”, “ha bisogno di continue conferme per maturare fiducia”, con un “processo di apprendimento irregolare”, che ha bisogno “della guida e del supporto dell’adulto”, viene da chiedersi se le insegnanti siano consapevoli di trovarsi davanti a persone in formazione, che si trovano nella fase più precoce del loro apprendimento strutturato.

Quanto si è perso della nostra professione di cura come insegnanti (sempre che si sia fatto lo sforzo di capire che l'insegnamento è una professione di cura), in questa “secondarizzazione” della scuola primaria? (con questo termine voglio indicare la trasformazione della scuola elementare in un istituto per bambini a cui si chiede di essere già autonomi nello studio, nel gestire più discipline e insegnanti, con una padronanza di sé e del proprio percorso che ci si aspetta più esattamente a 18 anni invece che a 7 - non certo perché l’insegnante di scuola secondaria cessi di essere una figura di cura).

Nell’epoca in cui il cervello del bambino è “costruito” per stabilire solide basi di attaccamento, non solo ci si aspetta che sia sicuro e impavido lontano dai genitori per 8 ore al giorno, ma si giudica come una “mancanza di autonomia”, la sua fisiologica ricerca di conferme e guide. 

Una scuola fisiologica non farebbe dei voti un obiettivo fondamentale perché la corsa al risultato immediato porta alunni e docenti a privilegiare la memorizzazione rapida a scapito della comprensione profonda. La valutazione dovrebbe essere formativa, per individuare punti di forza e ambiti su cui lavorare: feedback motivanti, utili per indicare i passi successivi, non etichette.
Una scuola fisiologica non incoraggerebbe il confronto e la competizione perché classifiche, premi e medie statistiche trasformano l’aula in un’arena, non incoraggiano la cooperazione e aumentano il disagio di chi resta indietro. Ascoltare i bambini e farli sentire unici - come in effetti sono - sconfigge la paura dell’errore e permette di procedere speditamente nel cammino della crescita, provando e imparando su basi solide.
Una scuola fisiologica si farebbe dettare il ritmo dai tempi di chi apprende, non dalla necessità di “finire il programma”: tempi didattici accelerati (o comunque decisi senza guardare aialunni che si hanno davanti), sono incompatibili con i bisogni di esplorazione e gradualità dei bambini. Il risultato è un apprendimento superficiale: diceva John Holt che “Fare domande ai bambini su cose che hanno appena iniziato a imparare è come sedersi su una sedia che è stata appena incollata”.
Ritrovare l’equilibrio fra scolarizzazione e apprendimento implica riconoscere che la serenità è la condizione e non la conseguenza del processo educativo efficace. Sappiamo ormai dagli studi che emozioni positive come l’entusiasmo e la sicurezza favoriscono la fissazione dei ricordi a lungo termine, mentre stress prolungato e ansia da prestazione attivano risposte fisiologiche (cortisolo elevato) che interferiscono con la memoria.
Finché “scolarizzare” avrà il significato nemmeno tanto nascosto di contrastare e forzare la fisiologia, non possiamo pensare che i risultati possano avvicinarsi a un apprendimento autentico.
Perché l’apprendimento è il processo naturale che sgorga dalla curiosità e dalla voglia di scoprire, ed esiste da sempre, nei contesti sereni in armonia con i ritmi di crescita. La scuola invece è invenzione recente, e non dovrebbe divenire la gabbia che impedisce alla natura umana di sbocciare.


Rita Picchianti


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